3° classificato 2023 – Vi salverà il futuro di Anna Magli

Vi salverà il futuro


di Anna Magli

Ogni venerdì, nell’immensa piazza Naqsh-e jahān, “L’immagine del mondo”, gli iraniani di Isfahan vivono il loro giorno festivo. Picnic ricchi come pranzi di nozze, studenti che vendono scatole intarsiate, bambini che rincorrono una palla mentre il sole infiamma le mattonelle della cupola della moschea Masjed-e Sheikh Lotfollah. Liceali vestite blu notte vogliono un selfie con il turista occidentale: uno dei pochi desideri da esaudire nella loro opaca adolescenza. Eppure sembrano tutti così sereni. Camminano in punta di piedi su una normalità che non esiste e domandano sempre, in modo ossessivo, che cosa l’occidente pensa del popolo iraniano. Ho visto due ragazzi che si tenevano per mano. Mi sono guardata intorno, temendo qualche vecchia della Gasht-e-Ershad pronta a denunciarli. E’ un mondo spavaldo questo Iran di ragazzi e ragazze. Indossano veli leggeri che coprono appena i lunghi capelli curati e sotto lo spesso chador luccicano piercing su ombelichi al vento. Sono in Iran per inseguire un sogno. Ho letto il diario di un americano tornato in Persia dopo 30 anni, per cercare Hassan, maestro e “padre persiano” della sua fanciullezza. Dopo un viaggio lungo tutto il Paese lo aveva ritrovato.


Anch’io, come Terence Ward, ho percorso autostrade e deserti, per incontrare questi misteri che sono l’Iran e la sua gente. Per capire. Ho visto le rovine di Persepoli, i venditori di petali di rosa a Kashan e Izad Khast la “voluta da Dio”, città di paglia e fango. Shiraz e la tomba di Hafez, il poeta. Gli iraniani amano dire che anche nella casa più povera si trovano almeno due libri: il Corano e le poesie di Hafez. La figlia di Hassan mi viene incontro e mi abbraccia. Sa che conosco la loro storia, che si può fidare. Nella casa dove mi porta la famiglia al completo mi attende per il pranzo. Hassan mi accoglie emozionato, mi fa segno di accomodarmi accanto a lui, per terra, davanti a un piatto fumante di montone. Man mano che arriva il resto della famiglia, i foulard delle donne volano via non appena il portone di casa chiude fuori il mondo. Mi stringono, mi chiedono di raccontargli della mia vita libera. I più anziani, quelli che ancora ricordano, annuiscono. Quando arriva Mehdi, giovane nipote di Hassan, mi alzo per abbracciarlo ma lui gentilmente mi respinge. Hassan gli urla dietro: “Mehmoon habib-e-Khoda ast!” L’ospite è un dono di Dio! Si scusa, mi dice che di tutta la famiglia Mehdi è il solo integralista. Sento che si vergogna, non è l’immagine del suo mondo che voleva lasciarmi “Il nostro Paese, come la nostra famiglia, è diviso tra speranza e rassegnazione”. Hassan sospira, sa che i suoi occhi si chiuderanno presto su un fermo immagine d’incertezza dove la vita respira solo fra le mura di casa.

E’ quasi sera quando torniamo verso l’albergo. Mi hanno accompagnato tutti, adulti e bambini, il festoso corteo di una giornata che rimarrà per loro memorabile. Sul nostro addio “Ci rivedremo? Inshallah…figlia mia!” scende il fantasma della rinuncia. Hassan mi stringe un braccio, la sua voce è accorata: “Parla di noi, racconta a tutti chi siamo. Anche le tue parole aiuteranno a salvarci”.


Penso a quei due adolescenti che sfidano il regime passeggiando con le mani intrecciate per le vie del centro. Saranno quelle mani, vecchio Hassan, padre mio persiano, a salvarvi. Non noi, occidentali impotenti e inetti. Saranno le mani che si cercano, il piercing appena nascosto dallo chador, il velo a metà testa sui capelli lucidi. Sarà il vostro futuro a farlo.

3° classificato 2023 – Aspetto un tiglio di Andreina De Tomassi

Aspetto un tiglio

di Andreina De Tomassi

E’ la solita storia. Il topino di campagna scappa dalla città e quello urbano desidera le sue amate fogne. Forse è il primo viaggio che si compie, dopo la capanna nella foresta: il cittadino va in campagna e il contadino in città. Mondi a confronto, l’esperienza diventa viaggio, stupore, paura, dentro l’antico dissidio tra paesaggio naturale e quello costruito. Ma sarà vero? Quanti viaggi, quante emozioni, domande interiori si sono posti quelli “fuggiti” dalle metropoli e gli altri, quelli “fuggiti” dalla campagna. Solo l’implacabile bilancia dei pro e dei contro decide come e dove stare.


Prendete me: giornalista, anzi, inviata, “regina della notte”, allegra e sfrontata, divorziata, senza figli, innamorata del suo quartiere romano, Monteverde, che a un certo punto, con il suo compagno, che ama il Furlo dell’infanzia, decide di mollare tutto e a 48 anni approda in un borgo sconosciuto nelle Marche.

Sant’Anna del Furlo, 10 anime in tutto, su un pianoro boscoso circondato dai monti, e sono solo i Pre Appennini, sullo sfondo, una quinta teatrale maestosa e terrificante, la Gola del Furlo. Sono rimasta tre mesi chiusa in casa. Mi veniva un tremore alle gambe, a uscire. Circondata da querce e frassini, lecci e robinie (i nomi li ho scoperti dopo), silenzio assoluto, solo il borbottio del fiume, connessioni con il mondo? Zero, se non qualche tacca raggiunta “buttandomi” dalla finestra. Non è stato facile. La prima volta che ho incontrato un enorme capriolo ho urlato come un’ossessa, ma anche lui scappò, con un balzo. Mille le prime volte di questa nuova vita, accompagnate dal sorrisetto di Antonio: quando passò sotto casa una coppia di giganteschi istrici, che io credevo fossero grandi come i ricci, un saettante orbettino, serpente verde oro che mi azzerò la salivazione e la parola, o la maledetta vespa calabrone, una delle 36.000 specie aliene, a proposito di cambiamento del clima… Ma il lupo, anzi la lupa con il suo cucciolo, mi ha inchiodata nel boschetto, non avevo mai sentito la colonna vertebrale ondeggiare così, né i peli dritti che volevano uscire dai bulbi; lei ha grugnito qualcosa al suo piccolo e se ne sono andati. Per non parlare dei cinghiali, dell’assiolo che urla di notte, dell’aquila che volteggia sopra la casa… Mi sono abituata. Sono diventata un’amante della natura, conosco i nomi delle piante selvatiche, riconosco qualche fungo, dialogo con il corniolo e gli antichi meli (ho creato un mio pantheon: la quercia davanti casa è mia madre, il ciliegio è mia zia), faccio il verso della cinciallegra… Ora è quando vado in città che ho paura di tutto.

Intanto a Sant’Anna, dove è nata la Land Art al Furlo, abbiamo creato una strada, è il “Cammino più breve del mondo”, 200 metri, composto da 100 artisti. Un viaggio nel viaggio. I “pellegrini” si divertono, saltellando a piedi scalzi sulle pedane dipinte. E noi? Certo, è svanito lo spirito dei pionieri, all’inizio, pensavamo di fondare un’Arcadia, una Comune di Sognatori, ma non è avvenuto, solo comunità temporanee per il festival settembrino, e poi la Casa nel bosco rimane vuota, solo noi due e la gatta. Quindi, abbiamo deciso di chiudere questa esperienza, questo tragitto lungo 15 anni. E’ stata una bella avventura. Non siamo dispiaciuti, forse disillusi; l’età avanza e speriamo che il viaggio, la vita, continui a sorprenderci.
Adesso aspetto un Tiglio. Non è facile: scegliere il posto, fare una buca enorme, metterci il letame maturo, una volta l’anno dargli azoto, fosforo, potassio, le potature primaverili, curare le eventuali malattie.
Proprio come noi.

2° classificato 2023 – Un sogno lungo 143 stazioni di Angela Mori

Un sogno lungo 143 stazioni

di Angela Mori

“… e non scendi mai? “
In tanti mi hanno fatto questa domanda prima di partire.
“No, non scenderò”.


In realtà ogni tanto scendo. Alle stazioni dove il treno si ferma per pochi minuti, scendo per sgranchirmi le gambe. Avanti e indietro sul marciapiede del binario come fanno i condannati a morte, mi guardo intorno, scatto una foto, a volte compro qualcosa da mangiare, ma soprattutto tengo d’occhio Galina. E lei tiene d’occhio me. Quando incrocio l’orologio col suo sorriso capisco che è il momento di risalire.

Galina ha i capelli rossi che sono sempre in piega. E’ la “provodnitsa” del vagone 10. Controlla il biglietto quando sali, ti informa sulle regole da rispettare, ti dice quando ci stiamo per avvicinare ad una stazione e quanti sono i minuti “d’aria” di cui puoi godere, accoglie i nuovi passeggeri durante il tragitto, passa l’aspirapolvere al mattino, pulisce i vetri dei finestrini del corridoio e soprattutto regala sorrisi che ti fanno sentire al sicuro.

Stare su un treno per una settimana è un po’ come essere malata e un po’ come essere detenuta. Passi la maggior parte del tempo sdraiata e a sedere condividendo il piccolo spazio dello scompartimento della seconda classe con altre tre persone.
Galina è stata la mia adorabile carceriera, la mia integerrima caposala.
A Khabararovsk è salita Elena.
Nelle ultime 36 ore si è aggiunta anche Tamara con la sua passione per la musica, l’Italia e Toto Cutugno.


A Vladivostok, poche ore prima della partenza, ho provato quel senso di angoscia che mi assale ogni volta che devo intraprendere un viaggio. Un’angoscia difficile da accettare.
Poi sono salita sul treno. E quei 6 giorni, 17 ore e 22 minuti che mi aspettavano prima di arrivare a Mosca hanno iniziato a prende corpo.
Temevo di contare i giorni, le ore e i minuti che mi separavano dalla fine di una prova di resistenza. Ho finito per contare i giorni, le ore e i minuti che invece mi separavano dalla fine di un sogno.
Già, il tempo.


Il tempo sulla transiberiana perde i suoi nomi abituali. Non è più lunedì, giovedì o domenica. Non è mattina, pomeriggio o notte. Il tempo assume i nomi delle stazioni in cui si ferma il treno e il numero di minuti di permanenza nelle stesse.
Poi c’è lo spazio.


Nessuna foto, nessun filmato potranno mai restituire la magia dello stare al finestrino ad aspettare quello che verrà dopo. Il paesaggio che cambia in continuazione passando dai boschi fitti di vegetazione alle verdi praterie intervallate da fiumi, ai laghi e pozze d’acqua nate dal disgelo primaverile, alla steppa che termina dove le nuvole cadono a terra, non possono essere trattenute da una foto. C’è sempre qualcosa di più, di nuovo, di diverso che ti aspetta guardando dal finestrino del treno in corsa.


La transiberiana è il paradiso dei pigri. Il paradiso di chi non ha voglia di far niente e per una settimana viene sollevato dall’obbligo morale di fare, parlare, ascoltare, camminare, produrre, occuparsi degli altri e del mondo.


Con Elena abbiamo stabilito da subito un codice di comunicazione fatto di sguardi, gesti e poche parole in russo magicamente riaffiorate dal passato.
A volte mi prende il dizionario, cerca una parola, mi indica il significato. Ci guardiamo, ci aiutiamo con i gesti e da una parola riusciamo a ricostruire dei concetti.
Mi sforzo di capire guardandola mentre mi parla. E non sempre ci riesco. Ma mi piace così.
In tanti mi hanno chiesto prima di partire perché volevo viaggiare sulla transiberiana senza scendere mai.
Perché volevo tutto questo.
Perché volevo incontrare Galina, Elena e Tamara.
E le ho incontrate.