3° classificato ex aequo 2022 – La stanza di Massimo Spinosa

LA STANZA

di Massimo Spinosa

Vento e pioggia. A me la montagna piace così. “Sei pazza”, dicono gli amici. Io e la mia famiglia vivevamo a valle e dalla finestra vedevo i monti proteggerci da lontano, una muraglia cinese creata dalla natura. Mio padre per lavoro non stava quasi mai a casa e non mi portava in cima. Non ho mai saputo perché. Peccato. “Domani andremo lì in alto”, annunciò a sorpresa un giorno, indicando con il dito l’orizzonte. Ero una ragazzina e lo avevo sempre desiderato. Quella notte non dormii. Era buio quando bussò alla porta per svegliarmi. Ero pronta, lo zaino colorato nell’angolo della stanza aspettava soltanto di essere preso. Un cenno e ci incamminammo. Mio padre andava veloce e non rallentava anche se ero in chiara difficoltà. Come un cucciolo con la madre, non lo perdevo di vista. Per orgoglio, non chiesi mai di andare piano o fermarci. Avevo il sospetto che lo facesse apposta. Una volta lo vidi sorridere di nascosto, ma non ne sono sicura. Avvolta nel buio, la mia unica preoccupazione era non cadere. Il sentiero diventava sempre più ripido. L’escursione non era come l’avevo immaginata. Mi mancava il fiato e per la fatica sognavo di sdraiarmi sull’erba e stare ferma come un oggetto abbandonato osservando il cielo. Mentre ero impegnata a dosare i passi e metterli nel posto giusto per non scivolare, fummo inondati dall’alba. Lo schiaffo di luce ci sorprese e in un attimo passammo dalla notte al giorno. Mio padre si fermò. Il sole illuminava le rocce e gli alberi, regalando l’illusione di scaldarci un poco. Anche se non esperta, sapevo che i raggi erano ancora freddi, ovviamente, ma questo mi bastava. Guardai la valle lontana e non pensavo di aver camminato tanto: tetti e finestre brillavano.

Non lontano da noi alcune foglie si mossero. Mio padre fece segno di stare fermi. La nostra era zona di lupi e di orsi. “Improbabile in questo periodo”, dissi a me stessa per rassicurarmi, ricordandomi di una discussione, una volta, in famiglia. Il cuore batteva a mille. Guardammo quel cespuglio: uscirono sei piccoli cinghiali con le caratteristiche striature orizzontali. Buffi e teneri, si aggiravano nel prato come se non ci fossimo. La natura ignorava noi umani. Tirai un sospiro di sollievo. “Presto, andiamo via. Nei dintorni ci sarà la madre, meglio per noi non incontrarla”, ordinò mio padre. Ci allontanammo e, ogni tanto, mi voltavo per vedere i cuccioli. La cima non era lontana ma iniziò leggermente a piovere e fummo costretti a tornare indietro. “Peccato, mi spiace. Non proseguiamo. Sarai delusa, ma non possiamo rischiare. Si torna a casa, piccola”. Ero contenta di camminare sotto la pioggia ma non glielo dissi. Dopo l’incontro con i cinghiali, scambiammo al massimo tre, quattro parole. Credo che mio padre volesse farmi capire che in montagna si va in silenzio e che, nel silenzio, si apprezzano di più persone e cose che ci circondano. Una regola valida in ogni circostanza. Senza sprecare parole, com’era nel suo stile, quell’escursione fu il suo insegnamento di vita.

 

“Ciao cara, pronta per i massaggi?”. È una delle due infermiere che si prendono cura del mio corpo. È di famiglia, ormai. Il venerdì tocca a lei: sempre gentile, non manca mai di sorridermi. Mi chiamo Elisa, 28 anni, tetraplegica da una vita. Le montagne, il vento, il cielo sono nella mia stanza. Crocifissa nel letto, posso alzare gli occhi e guardare il soffitto: l’ho fatto dipingere blu cobalto per immaginare e viaggiare. L’incidente mi ha cambiato fuori, trasformandomi in un vecchio soprammobile ma senza intaccare l’animo. Se potessi muovermi, sognerei un’escursione con mio padre.

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