Il Viaggio della Tartaruga

Il Viaggio della Tartaruga

 

di Silvia Zetto Cassano – Seconda classificata 2007

Nessuno era cauto e quieto come la mia tartaruga. Nessuno più di lei era felice nei cerchi in cui stava racchiusa, quello della sua stanza, quello della nostra casa, quello della città in cui vivevamo e da cui lei mai si era spostata.

Lei stessa era un cerchio, il suo rotondo esistere rasserenava chiunque le vivesse accanto. Nulla le era più estraneo dell’idea del viaggio, se viaggio è movimento, conquista di nuovi spazi, ricerca di qualcosa che si sente come mancanza. Questo pensavo, certo della serenità che credevo di vedere nei suoi occhi tranquilli. Quando tornavo dai miei voli le raccontavo ogni cosa, le linee degli orizzonti sconfinati, i minuscoli dettagli delle forme delle cose, i frastuoni e i fruscii, i colori delle acque e dei cieli, le storie degli uomini e delle donne . Lei mi ascoltava silenziosa ed io ero sicuro della sua felicità come della mia, come ero sicuro che l’avrei ritrovata a ogni mio ritorno. Contavo molto, lo confesso, anche sulla sua paura del mondo, che la accomunava a tutti gli animali piccoli che guizzano o arrancano e che possono soltanto tentare brevi fughe, in caso di minaccia. Lei si muoveva lenta, nei suoi tragitti in spazi minimi, a ogni accenno di pericolo si rannicchiava in se stessa, e aspettava. Un giorno, tornando da un volo più lungo degli altri “Ho visto una balena bianca – le dissi – il suo corpo era gigantesco, si dibatteva fra gli arpioni che la trafiggevano. Il mare schiumava di rosso attorno a lei e un uomo ….” “La conosco – mi interruppe – ho letto la sua storia.” Era la prima volta che non mi lasciava finire mentre raccontavo ciò che avevo visto. Restai perplesso, ma non vi diedi peso. Dopo il viaggio successivo, pensando che forse la descrizione di quella scena violenta l’avesse turbata, le parlai di un piccolo fiume che scorreva in un parco dove c’era un giardino di ninfee “E’ la Vivonne, è dalla parte di Guermantes. Sono bellissime, quelle ninfee. A volte, in certe sere ‘dopo un temporale il fondo dell’acqua è azzurro, quasi viola e sulle rive crescono le esperidi, bianche e rosee e le viole del pensiero sembrano voler posare come farfalle le loro ali azzurrognole sull’obliquità trasparente di quell’aiuola d’acqua….’ Dalla parte di Méséglise invece ci sono dei lillà che….” S’interruppe a causa del mio stupore. Aveva visto più di quanto non avessi visto io. Era come ci fosse stata, in quel piccolo villaggio francese. Nel viaggio che feci dopo volli spingermi ancor più lontano, alla ricerca di qualcosa di speciale da raccontarle “C’è una fortezza al limite di un deserto, e là un militare aspetta da anni e anni l’arrivo dei Tartari…” “Non arriveranno in tempo. Quell’uomo morirà senza poterli vedere” mi disse. Da allora i miei viaggi si fecero sempre più audaci, i miei occhi più attenti a scrutare e a cogliere ogni sfumatura di ciò che vedevo, per riuscire a stupirla e incantarla come un tempo. A volte, per non deludermi, non diceva niente, ma io intuivo che nei posti di cui le narravo lei era già stata, li conosceva meglio di quanto non li conoscessi io. Capii così che aveva letto tutti i libri e temetti per la sua felicità e per la mia. Cosa avrei potuto fare perché attendesse ansiosa il mio ritorno, come un tempo ? Quando tornai dal mio ultimo viaggio trovai la casa vuota. Lei se n’era andata. “Tornerà, vedrai, dove vuoi che vada, una come lei, così debole e timida…” mi dissero tutti. Ma io sapevo, so che non era vero. La mia tartaruga non ha artigli né zanne, né ali per fuggire. Ha solo il suo guscio a proteggerla dal male del mondo e dalla cattiveria degli altri. Ma non c’è animale più coraggioso di lei. Solo chi sa stare fermo e quieto è capace di affrontare qualsiasi viaggio, anche il più rischioso, a patto che sappia cosa sta cercando. Lei non tornerà finché non l’avrà trovato. Io so cosa cerca, me lo disse una volta, quando le descrivevo i secchi orizzonti del Gran Sertao e i suoi cespugli spinosi e crudeli e i venti ancor più crudeli che ti scacciano via. “Non riesco a capire – mi interruppe – mi mancano gli odori. C’è tutto nelle parole, anche la musica. Ma non i profumi, gli effluvi, gli aromi, le essenze, e ancor meno le esalazioni sgradevoli, gli odori volgari o nauseanti o quelli così violenti da contenere l’essenza stessa della vita e dei luoghi. Quelli che non hanno nemmeno le parole per dirli”. La mia tartaruga li sta cercando. Forse saggia com’è, le potrà bastare un unico aroma, un unico odore per capirli tutti. Forse allora tornerà da me, è questa la speranza cui mi aggrappo. Vorrei raggiungerla per aiutarla, starle accanto, proteggerla, ma non so quale direzione abbia preso. Sfoglio le pagine dei libri della nostra biblioteca, a volte mi convinco che è andata in cerca del fango sabbioso dell’isola dei Feaci, e dell’odore di un corpo di naufrago intriso di salmastro e di terrore. Oppure si è diretta verso oriente, per sentire l’acidula fragranza notturna dei limoni e degli aranci senza la quale Sheherazade non sarebbe riuscita a incantare il sultano e con esso, la morte. Forse sta andando oltre gli oceani per sentire l’onda violenta che il calore fa sprigionare dai sottoboschi senza stagioni delle foreste attorno a Macondo, forse è quello il più intenso degli odori del mondo, talmente forte da annullare il tempo e lo spazio e la paura di esistere dentro ad essi. Io non sono sicuro che possa ritornare. La aspetto. La sua assenza ha fatto perdere senso ai miei voli e io non so più che fare. Scosto la tendina della finestra per scorgerla da lontano, provo ad ascoltare gli odori dei suoi libri, cerco là dentro la speranza ma non trovo altro che forme innumerevoli, infinite, della nostalgia che l’ha spinta a lasciarmi, a lasciare la sua casa, a negare il suo guscio.