Il Funambolo – 2° Classificato 2001
di Alberto Nardini
Il sole fuggiva verso ponente, il nostro fuori strada lo inseguiva, via dalla notte e dal coprifuoco, verso l’ultimo passo subito prima di Kabul. Tornante dopo tornante la strada era sempre più sconnessa, la nostra andatura sempre più lenta, l’azzurro cupo del cielo al tramonto sull’HinduKush più vicino.
All’improvviso li vidi. Non so da dove quei due bimbi siano usciti, dato che case nelle vicinanze non ne avevo notate. L’auto oramai procedeva a passo d’uomo fra le buche, loro si sono avvicinati, mi hanno guardato ed hanno teso la mano. E’ il gesto più comune che ho visto in questo ed altri posti. Chiedere la restituzione di almeno una parte del bottino, sotto forma di elemosina.
Il nostro bottino occidentale e nordista, coloniale, post-coloniale, ora globalizzato. Continuavamo piano ad avanzare e loro hanno iniziato a correre tagliando su per le scarpate. Mi aspettavano al tornante successivo e tendevano ancora la mano.
Quella del più piccolo era rosea, morbida, delicata. E la sua corsa era leggera ed armoniosa, come quella dei bimbi brasiliani che corrono dietro ad un pallone di carta, stracci e spago. Evitava le buche ed i sassi più grossi come un’agile ala destra del passato le entrate dei difensori. Il grande, invece, mostrava una mano più vecchia dei circa dieci anni che avrà avuto. Sporca di terra, segnata, callosa, indurita. Correva anche lui, ma era una corsa diversa, innaturale, faticosa e lenta.
Non poteva scartare come il piccolo: correva sulle mani. Le gambe non le aveva più: rimaste su una dei milioni di mine antipersona seminate sulla sua terra. Quando si fermava restava in equilibrio su una mano e su quello che immagino fossero dei monconi di coscia molto corti, indovinati sotto i pantaloni vuoti, penosamente trascinati. E tendeva la mano libera. E poi correva ancora. Funambolicamente. Pesantemente. A forza di braccia.
All’ultimo tornante mi ha atteso ancora, la sua figura sommaria delineata all’ultima luce ad occidente. Ha teso ancora una volta la mano, con aria interrogativa e sempre in precario equilibrio. L’auto si è avvicinata, poi Wahim seguì la curva sterzando in direzione opposta. Per un attimo abbiamo incrociato gli sguardi, io l’ho sfuggito.
Scollinammo quasi subito, la strada migliorava, riprendemmo velocità, in fondo le luci di Kabul. Si era fatta notte all’improvviso.