Il Vecchio di Tagayè – 2° Classificato 2002
di Marco Aime
Era un vecchio che sedeva da solo. Stava lì. Fermo nella penombra. Seduto sull’ingresso della capanna, una piccola apertura di terra che sembrava ingoiarlo come la bocca di un pesce gigantesco. Era sempre lì, in quella posizione, sbiadito dalla polvere, tutte le volte che ero venuto a trovarlo, qui a Tagayé.
La sua casa è sul ciglio della pista, una tipica tata somba. Un piccolo castello di terra, con le torrette che si affacciano sulla pianura appena ondulata. Tata somba è anche il nome di un hotel di Natitingou. Uno di quegli hotel di lusso, con la piscina e l’aria condizionata e i turisti che siedono all’ombra di finte payottes bevendo birra gelata.
La sua casa invece si screpola ogni anno di più a causa di un sole ingrato.
I turisti che arrivano da queste parti vengono portati dalle guide qui a Tagayé, per visitare questa casa, una delle più caratteristiche della regione. Anche io c’ero finito accompagnato da una guida. Sopra la porta dell’abitazione erano appesi alcuni crani di uccelli, ossa, pelli di animale essiccate, amuleti di ogni tipo.
Dalla trave penzolava un grosso coleottero appeso a un filo. L’aspetto era inquietante per uno straniero. Sembrava di entrare in uno di quei tunnel delle streghe che si trovano nei luna park. La porta era bassa e chinandosi si entrava nel buio più assoluto. Solo uno sbiadito fascio di luce filtrava dall’alto per illuminare a malapena le travi del soffitto annerite dal fumo. Un tronco su cui erano state sbozzate alcune tacche, rese lucide da troppi piedi callosi, conduceva alla terrazza superiore. Sembrava una casa di quelle disegnate sui libri di fiabe, con i muri un po’ panciuti e i tettucci storti. Le cime delle torrette fungevano da granai o da camere da letto. Vista dalla terrazza la pianura grigia, spazzata dall’harmattan, si perdeva in un impasto polveroso.
Il vecchio stava seduto sulla porta di una piccola capanna di fronte alla sua casa. Aspettava che i visitatori finissero il loro giro, scattassero le loro foto fino a che la guida diceva loro: «Bisognerebbe dare qualcosa al vecchio». E lui ringraziava e girava e rigirava tra le dita ossute le banconote consunte da 1000 CFA, colore della terra nella stagione secca.
Lo avevo poi rivisto in numerose foto di dépliant di viaggio, di riviste turistiche. La sua casa e la sua figura ossuta erano diventate una sorta di poster pubblicitario della regione dei Somba.
Sono tornato più volte a trovarlo e lui era sempre lì, seduto. Una volta c’era anche un bambino che gli si arrampicava sulle ginocchia ruvide e secche. Ora invece un ragazzo dalle mani callose e sporche di terra, con la zappa sulla spalla, mi dice che il vecchio non c’è più.
Sto un po’ a chiacchierare con il ragazzo. E’ un nipote, uno dei tanti, mi racconta che suo nonno è morto due mesi fa.
«Di cosa?»
«Chi lo sa?» dice e allarga le braccia.
E’ sempre così qui in Africa, si muore senza sapere mai di cosa. E’ successo con la moglie di Arouna, che aveva meno di quarant’anni, è successo con Pascal, una trentina d’anni, due figli piccoli. Tutti scomparsi senza sapere di cosa.
Guardo quei feticci appesi sulla porta. Sembrano inutili ora che quel vecchio non c’è più. Il nipote resta lì, con la sua zappa penzolante. Voglio vedere la casa? No, lo ringrazio, l’ho vista tante volte, ma ora il buco della porta è nero. Manca quella figura polverosa, quasi immobile.
«Ci sono dei vecchi qui, che sembrano delle statue di legno» mi aveva detto un giorno Lawa, indicandomi alcune sculture ammucchiate nell’angolo della sua bottega. Volti di legno, appena abbozzati, screpolati dal tempo, deformati dall’umidità: «Sono davvero così! Come gli antenati. Uguali, non sono mai cambiati» insisteva Lawa.
E davvero viene voglia di pensarli così certi anziani dei villaggi. Immobili, immutabili. Ma quel vecchio invece aveva una grande storia da raccontare. Dalla sua bocca sdentata, con una voce rauca e flebile una volta mi aveva parlato di «Indochine». Non riuscivo a capire quel nome, un po’ perché biascicato in un francese incerto, un po’ perché tutto mi immaginavo, tranne che sentir parlare di Indocina. Sì, lui era stato là, a Dien Bien Phu. Aveva combattuto per i francesi contro i vietnamiti. I suoi ricordi si confondevano, parlava di battaglie, fucili, di una collina e di un capitano matto. Ma lui aveva voglia di raccontare.
Non ne arrivavano molti di turisti a Tagayé e quei pochi scendevano dall’auto, passavano davanti al vecchio attirati da quei feticci appesi davanti alla casa. «Sono proprio quelli della foto» dicevano. Si piazzavano davanti a lui, dandogli le spalle, per fotografare quei misteriosi oggetti selvaggi, già visti su qualche rivista. Intanto i loro accompagnatori trattavano con un giovane della famiglia sul prezzo da far pagare ai turisti. Poi tutti si infilavano nel buio affumicato della casa, per uscirne in fretta, nauseati dalla puzza sorda di fumo, cibo e marciumi vari.
E lui stava lì. Seduto. Avrebbe voluto raccontare di quelle foreste buie, di quell’inferno dove «Nous, le noirs», come diceva lui, erano stati gettati.
Ma i turisti erano in cerca di foto, non di storie.