Il Viaggio degli storpi – 2° Classificato 2003

Il Viaggio degli storpi – 2° Classificato 2003

di Daniel Boaz Agami

Erano tanti, erano pochi, erano sorrisi, erano occhi pestati, denti caduti, mani morte, ginocchi rotte, piedi amputati. Uno di loro era un italiano, si chiamava Emilio, e pensava proprio al suo omonimo concittadino, il torinese scrittore ottocentesco che lo aveva fatto avventurare nell’Asia senza essersi mai spostato dalla poltrona di casa.

Li hanno visti camminare, o meglio hanno visto camminare quelli che se lo potevano permettere, hanno visto alcuni passeggiare con le mani, alcuni camminare con i piedi, altri strisciare o strisciarsi addosso. Altri erano in barella, ma sognavano di muoversi. Altri non ce l’avevano fatta, ma sognavano di esserci. Erano tutti figli di Tersite, deformi, freaks, anormali, abnormi, deficienti, uomini scemi, appena usciti dall’era della grande nebbia.

E vagavano, uomini con una meta senza meta, dall’est, dalla vergogna di Goethe, memori di quell’albero nei pressi di Weimar, sotto cui amava riposarsi, che ora era divenuto un forno; vagavano verso l’ovest, della speranza, del mistero, della religione, lontani dal paese dove Dio era davvero morto, o dove forse Dio era malato e non poteva vedere.

Passarono lungo la Unter der linden, con i tigli in fiamme in una Berlino che non era Berlino, ma una terra di nessuno spartita da strane lingue, ma non da quelle odiose lingue dure che urlavano e picchiavano anche solo con le parole. Passarono a Koenisberg, poi vicino a Charlottenburg, ma la villa era quasi intimidita dallo schifo che c’era attorno, così come tutta la grande città.

Scesero lentamente, il viaggio era stancante, i mezzi di fortuna, qualche treno gestito da aguzzini o da americani, o da entrambi, e passarono per Munchen, dove diluvi di birra sciacquavano le strade di sangue, dove si rideva in inglese e si piangeva in tutte le altre lingue, e si moriva in tedesco, dove l’orologio meccanico in piazza scandiva l’allontanamento dal patibolo.

Passarono il confine. Non ci credevano, che erano fuori dalla terra del Malum, dalla terra della Bestemmia (i tedeschi le realizzavano, loro le usavano come preghiere per uscire vivi). Oltrepassarono una per loro irriconoscibile Montecarlo, guardandola da sotto, dalla spiaggia. E camminavano, ed eccoli in Francia, chissà dove andavano, chissà che volevano. Chi aveva ancora gli occhi guardava il mare, mai visto, irriconoscibile.

Era davvero bello, e quelle spiagge così deserte, ecco! Erano deserti in riva al mare. Qualche pescatore con i baffi che sapevano di sale li osservò. Lui abbronzato perennemente, muscoloso e grasso al tempo stesso, loro magrissimi, pallidissimi, rotti scemi, quasi inumani, sicuramente dei subumani, alieni al benessere e inesperti della vita di tutti i giorni.

Il pescatore francese li osservò: scalciavano, strisciavano, e, soli sotto al sole bello, si denudavano. Erano orribili da vedersi, non potevano essere vivi, eppure conobbero l’acqua della Costa Azzurra , che per loro non era azzurra, ma era divina. Si pulirono le ferite, i tagli e lo sporco con l’acqua marina, non avevano gambe, ma chissà perché, sapevano nuotare.

E continuarono il cammino, non avevano né biglietto né prenotazione, giunsero tra le delizie ispaniche e continuarono, presero torpedoni, trenini del far west, ma iberici e finalmente arrivarono, là nella terra dal triste canto del fado, nel colorato paese degli azulejos.

Eccolo, l’oceano. E arrivarono, nella terra della speranza, nella terra di Dio, memori di venti anni prima o poco più, faceva un gran caldo sano, c’era un bellissimo profumo di baccalà. Li hanno visti gioire, quando le insegne dei negozi dei cinici venditori di madonne piangenti e sanguinanti cominciavano a comparire. Il cammino da Buchenwald a Fatima non è mai breve, ma loro ce la fecero.

Preghiere su preghiere, un fascio di luce il cielo sguainò. E poi il Silenzio. Il Viaggio aveva avuto senso.

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