L’Anello di Isyad

L’Anello di Isyad

 

di Bruno Privizzini

 

Isyad mi aspettava poco lontano dall’ingresso dell’aereostazione e nella luce del tramonto la sua figura mi apparve ancora più alta e sottile di come la ricordavo. “Bentornato fratello!” disse inchinandosi leggermente.

Indossava una galabijja azzurra, aveva il capo e una parte del volto coperti dallo cheche blu indaco e portava al collo, legato ad un cordoncino nero, l’anello d’argento che avevo notato fin dal nostro primo incontro. Era un anello stupendo, abilmente inciso con misteriosi disegni, forse un talismano. Quell’oggetto mi incuriosiva molto ma non avevo mai osato chiedere a Isyad di cosa si trattasse. A Tammanrasset nulla era cambiato. Anche l’Hotel Tin Hinane era rimasto lo stesso. Questa volta però la finestra della mia stanza si apriva verso il deserto e nel brillio della luce stellare potevo intravedere la sagoma nera delle montagne dell’Hoggar. Mi infilai nel sacco a pelo e provai a chiudere gli occhi ma non riuscii a prendere sonno. In poche ore avevo lasciato il frastuono di una grande città ed ero finito in questo luogo dominato dal silenzio e da una luce notturna brillante e trasparente come il cristallo. Perché ero tornato? Per sfuggire, come nel cinema e nella letteratura, dal male di vivere e ricercare nello spazio desertico una nuova identità? O forse per tentare di capire, di fronte alle guerre e ai disastri che sconvolgono il mondo, se gli uomini hanno davvero smarrito la razionalità e la ragione? Oppure per cercare di comprendere le ragioni del contrasto tra religioni, culture e tradizioni, millenarie e la cosiddetta modernità portata dagli occidentali?

Isyad arrivò di primo mattino alla guida del suo fuoristrada: “Andiamo – disse – a quest’ora la sabbia è ancora fredda e compatta”.

A sera, tra le dune rossastre di Oufiakit, ritrovammo il grande deserto, la madre del silenzio che parla, dello spazio senza fine che imprigiona, del nulla che strizza l’anima. Guardai Isyad che stava seduto accanto al fuoco, osservai ancora una volta l’anello che portava al collo e finalmente osai chiedergli: “Cosa è quel bellissimo anello d’argento che porti appeso al collo?”. “In esso è racchiuso il deserto…il cuore dell’universo” rispose Isyad. “Me lo ha donato Saud , un vecchio tuareg che vive in un’oasi vicino ad Agadez. Una volta sono andato a fargli visita e lui mi ha dato l’anello. Portalo sempre con te – mi ha detto – in esso è racchiuso il deserto… il cuore dell’universo. Tu sei figlio del deserto e dentro il cerchio dell’anello sta chiuso anche il tuo cuore… Così il deserto si prenderà cura di te”.

Seduti l’uno di fronte all’altro sorseggiammo il te per tre volte. Poi, in segno di amicizia, Isyad si tolse lo cheche e mi mostrò interamente il suo viso scuro come il cuoio. Disse che la religione, le leggende e le tradizioni, affondavano le radici nel baratro dei secoli e che le diversità non potevano essere cancellate. Mi guardò con quei suoi occhi neri e lucidi come specchi: “Solamente rispettandoci l’un l’altro possiamo comprenderci e vivere in pace”. Disse ancora.

Giorno dopo giorno scendemmo a sud fino all’Abre du Tenerè e poi ad Agadez. Infine risalimmo verso nord e all’aereoporto di Tammanrasset ci salutammo. Isyad mi abbracciò e poi si sfilò l’anello e me lo regalò.

Da molti anni porto al collo quell’anello e a quanti mi chiedono del suo significato rispondo semplicemente che si tratta di un portafortuna, di un talismano contro il male e i demoni. Loro sorridono ma io ricordo le parole di Isyad e mi piace pensare che forse il deserto si è preso cura anche di me.