Matera

Matera

di Fabiola Nena

Avevo sentito parlare dei “sassi di Matera”, li avevo studiati alle scuole elementari…Ricordo ancora la fotografia stampata sul sussidiario, sezione geografia: c’era un uomo in camicia stinta, azzurra, a righe, e dietro si intravedeva una parete rocciosa costellata da putrescenti muffe verdi e ed erratiche crepe che si diramavano disinvolte in fessure o faglie ancor più grosse; due finestre con imposte pencolanti, i cardini arrugginiti, gli spigoli corrosi dall’umidità e dal tempo. Erano poveri, a Matera, era triste, Matera.

Così, animata dal quel coraggio che solo i curiosi sanno avere, decisa ad esorcizzare quell’immagine tanto negativa e incredibile che aveva impressionato la mia mente di bambina, ho deciso di vincere i pregiudizi e visitare di persona ciò che la vecchia foto impallidita di un libro voleva battezzare come la città della desolazione e dell’abbandono.

Nulla racchiude in sé la storia più della pietra. Essa abbraccia il trascorrere del tempo nelle sue cavità scistose, respira il mutamento della temperatura, origlia discreta le conversazioni di chi le passi innanzi, assiste impassibile al dispiegarsi degli eventi, vive la vita degli altri, la vita del mondo, e se ne fa testimone.

Ed eccola, la rocca di piccole case stipate ed ammucchiate le une sulle altre, ecco il grande gigante triste che riposa su una collina, ecco il bianco baluginio delle pareti imbiancate a calce, il fascino dell’antico, dell’incontaminato, ecco che si sprigiona nell’aria il profumo della storia, quell’effluvio pigro, polveroso e stinto, ma dotato dell’incredibile capacità di ipnotizzare, di incantare con la sua maestosa placidità. Benvenuti nel tempio dell’antico, arroccato sulla superficie rocciosa e tufacea del sasso Caveoso e Barisano, dove l’uomo ha posato pietre celebrando il loro connubio con la roccia nuda, in un amplesso naturale, spontaneo e indistruttibile.

Cammino per le vie, strette strade di sasso, lastricate con massi o sassi irregolari, sono una giovane guerriera in trincea, stretta fra alte mura dipinte a calce, di un bianco abbacinante e spettacolare che riflette i raggi solari in un riverbero gravido di luce e di chiarore straordinariamente nitido. Il bagliore terso mi insegue, ma resto all’ombra delle pareti nivee; talvolta il vento si insinua negli stretti vicoli, come un visitatore indiscreto, e irrompe in vortici polverosi, trascinando il pulviscolo che, simile ad un guardiano, sorveglia la città addormentata con una patina vetusta.

Mi stropiccio gli occhi arrossati, li socchiudo, e ancora li stropiccio, in una lotta continua contro ogni refolo gagliardo. Inspiro il profumo penetrante del rosmarino turgido che svetta in alti vasi di terracotta ai lati delle porte delle rare case abitate o in folti cespugli selvatici e silvestri, lungo i pendii brulli che scivolano sulla superficie polverosa della grande collina dove è adagiata la città, mi incanto di fronte al colore rutilante delle buganvillee. Non v’è una folla di abitanti, non v’è il chiasso festoso e petulante, quella cantilena promiscua e spuria di clacson, urla, pianti, miagolii, rombi metallici, stridori di pneumatici, ticchettii di tacchi di donna; non vi è la musica che si può ascoltare giù, alla città nuova: qui tutto tace. Le imposte delle case sono sbarrate, talvolta aperte, ma tristi e solitarie, come uova schiuse invano, perché prive di una qualsiasi forma di vita.

Gli unici edifici ristrutturati ed accoglienti sono i ristoranti e gli alberghi, che svettano in contrasto con la circostante ontrasto con le sassosee, ma incredibilmente suggestiveiali, pericolosamente fattiscenti vedere delle tende oscillantirdo.e nitarchitettura semplice e primordiale, forse pericolosamente fatiscente ed aggettante verso valle, ma incredibilmente suggestiva. Mi affaccio ad una balaustra posticcia, sassosa, e scorgo, infossato nel dirupo della gravina, il fiume, un rigagnolo torbido che lambisce e difende il gigante assopito. Al di là del greto si erge un nuovo colosso petroso, caratterizzato da erratiche caverne buie e inquietanti, occhi di sentinelle che vegliano sulla loro grande madre, quasi a ricordarle con maniacale insistenza le sue povere origini, la vita dei pastori, che ogni estate si ritiravano in quegli antri a pascolare le poche pecore smunte e sparute.

Ecco, là, nel cielo, volano stormi inquietanti di falchi affamati; sono scuri aquiloni che si gettano in picchiata sul prato erboso, e catturano questa o quella preda incolpevole. A Matera tutto è ancora fame: fame del vivo scrosciare dell’acqua, di bambini che corrono a perdifiato,di sagre di paese, fame di vita, e di resurrezione.

Solo ora avverti lo spiacevole rumore del silenzio. E in questo momento, improvvisamente conscia della brutale evidenza della storia del colosso solitario, mi volto verso un versante della montagna, e vedo, stipate in file parallele, una serie di vecchi tuguri, sfuggiti all’attenzione di architetti e netturbini forse per la loro dislocazione piuttosto decentrata. Attirato, sconcertato, già covando un cattivo presagio nel cuore, avanzo inerpicandomi per le vie, sempre più anguste man mano che mi avvicino timidamente a quella tenebrosa appendice.

Pochi gradini smussati o scheggiati dall’usura mi invitano ad entrare in un locale chiuso, chiazzato dall’umidità, dove ancora sopravvive qualche coccio della modesta pavimentazione, o dei dipinti scrostati, terribilmente somiglianti a scarne pitture rupestri. Vedo mangiatoie in stanze buie e sotterranee, nicchie e vani alle pareti, piccoli forni affumicati, inspiegabili buche che si aprono, di tanto in tanto, nei pavimenti logori.

La mia mente inizia ad immaginare i bambini rannicchiati come larve nella paglia, le ginocchia incrostate di sporco, i piedi scalzi, la chiostra dei denti annerita e magari incompleta, il corpo allampanato scosso dai tremori della febbre, i capelli arruffati e pidocchiosi.

Vedo vecchi anziani che si riducono a rubare il cibo ai nipoti per non morire di fame, seguo le movenze sfinite ed affannate di giovani madri ai lavatoi pubblici o osservo commosso il lavoro bestiale dei padri, al frantoio. Spio le processioni di pietosi cortei alle numerose chiese rupestri, a S.Maria di Irdis…Chissà cosa imploreranno quei tristi pezzenti…una bambola, un fuso, uno stame di porpora, dei sandali? Cercano la speranza, in quegli edifici sacri, anelano il regalo confortante di un’illusione che non arriverà mai.

Continuo la mia visita, il lento calvario. Procedo benché le case siano tutte orribilmente uguali: avanzo perché cerco conferma alla mia incredulità affranta. Ma il mio cuore mi ferma, stremato perché troppo piccolo per abbracciare gli enormi misteri taciuti del tempo.

E allora osservo l’orizzonte, l’arido altopiano delle Murge, con gli stessi occhi liquidi e vacui con cui, nel vicino novecento, dovevano averlo contemplato anche quei vecchi Materani; mi si stampa nella memoria una nuova indelebile fotografia: sussidiario, sezione geografia, ed ecco immortalato un cielo plumbeo, e uno stormo di falchi neri, sotto, un gigante di gesso e neve, addormentato.

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