Sotto una nuvola nera

Sotto una nuvola nera

di Nicoletta Bartolini

Era tornato di nuovo.  Non capivo bene cosa fosse, se un fantasma, un’idea o una nuvola  nera … ma mi fermava, mi inchiodava le braccia prima, poi immobilizzava le gambe e tentava di  spezzarmi il respiro, una mano pesante sul cuore.

Avrei voluto fuggire, ma ero bloccata e avrei voluto gridare, ma ero muta, disperata. E proprio all’ultimo, nell’ultimo istante di aria,  un attimo prima di soffocare, uno squarcio improvviso nel buio e appariva la casa, la grande casa dei nonni, tutta bianca, ricoperta di neve, un fiore rosso davanti alla porta… no, sembrava un fiore ma era una macchia di sangue che veloce si allargava, veloce…

E mi svegliavo, di scatto seduta sul letto, ansimante, sudata. - Che c’è? È già ora? – lui si girava tra le lenzuola e ricominciava a russare. - Forse sì… è ora – un bisbiglio, una promessa alla nuvola scura.
Per questo avevo deciso quel viaggio. Per via di quella nuvola nera e quella mano pesante sul cuore. Sapevo già che non sarebbe stata una comune vacanza, né una vacanza speciale. Sarebbe stato un viaggio dell’anima. Ero abituata a visitare le città del mondo, faceva parte del mio lavoro e ormai le strade, la gente, le lingue diverse, niente mi spaventava. Ma in quella casa in montagna, nella casa dei nonni, non ero più voluta tornare.

Da bambina, andare a L’Aquila con i miei genitori, andare dai nonni, era un viaggio vero, e impegnativo anche. Mia madre riempiva una grande borsa con cento cose, compresi borotalco, medicine, cerotti, disinfettante e tutta una serie di generi di conforto, tipo cioccolatini, biscotti, acqua… dovevamo attraversare il Lazio e approdare in terra d’Abruzzo.

Partivamo all’alba, con una Prinz bianca: impiegavamo più di tre ore per arrivare. Io viaggiavo seduta dietro e guardavo fuori del finestrino, abbandonandomi ai sogni e alle promesse del futuro e lasciando che il panorama mi riempisse gli occhi e l’anima. Scivolavano via le montagne brulle, le mucche al pascolo, le macchie gialle delle ginestre in fiore. Poi le grandi radure e le piccole case aggrappate a blocchi di roccia a strapiombo oppure sparse nelle dolci vallate o lungo i leggeri pendii.

Ogni paese aveva il suo cimitero, piccolo, vicino. Qualcuno si vedeva benissimo dalla strada: protetto da un muro di pietre e cipressi impettiti. Ogni tanto mio padre attaccava con uno stornello o un vecchio motivo e mia madre lo accompagnava. “Tutti insieme, dai”. E allora era il momento di “quel mazzolin di fiori”, che sospingeva la vecchia e pesante Prinz sulle mezze salite, dentro i tunnel che bucavano la pancia delle montagne, fino alla prima sosta al secondo autogrill. Benzina, pipì e un dolcetto. Poi di nuovo a bordo, per continuare l’avventura, il viaggio.

Non c’erano cori nell’abitacolo ora. Aveva spento anche la radio, che quando guidava lo distraeva. Correvamo veloci sull’autostrada e il nastro del viaggio della mia infanzia sfilava rapido dentro l’anima mia. Lo stesso paesaggio, solo più scarno; le stesse montagne, un po’ più basse; gli stessi paesi, solo più piccoli e un po’ più lontani. Con la macchina nuova non avevamo bisogno di soste e poi lui preferiva il caffè casalingo a quello dei bar delle autostrade, ma nel secondo autogrill avrei voluto fermarmi… - Non puoi resistere altri  quaranta chilometri? – diventava grigio. Lo guardavo poco, per non doverlo vedere, tutto quel grigio. Ma a volte esplodeva… ed eccola, tornava di nuovo la nuvola nera… e quella mano pesante sul cuore.

Eravamo arrivati presto. La casa dei non ni era appena fuori città, ma io volevo prima tornare a vedere. Vedere tutto, cercare qualcosa… A spasso in centro, un giro a piedi: eravamo in Piazza Duomo, illuminata da un raggio di sole che, chissà come, era riuscito a districarsi tra le nubi compatte di quella giornata di fine settembre e ora accendeva il selciato, i vecchi palazzi, la chiesa. Io cercavo con gli occhi quel bar… non c’era più e non c’era nemmeno quella panchina dove d’estate mangiavamo il gelato e d’inverno, con sciarpa, guanti e cappello, a sbucciare le caldarroste … e già non c’era più il sole – una nuvola scura – non c’era allegria, non c’era papà. Compravamo sempre le paste in una via lì vicino, ma non ricordavo bene dove. Lui intanto si distraeva, guardava una donna passare, un sorriso.  Così avevo chiuso gli occhi e respirato a fondo… “di qua” gli avevo detto; e voltavo in via Patini.

Era lì, la pasticceria era lì, non ci credevo… - C’è ancora tanto da camminare?– si stava annoiando. Volevo portarlo almeno fino al Castello e così eravamo tornati sulla piazza e poi in silenzio, senza sfiorarci, in tasca le mani, avevamo imboccato il Corso. Era il punto che preferivo, ma non volevo passare sotto quei portici. Troppi volti scomparsi nel gorgo del tempo, troppi scherzi, giochi, risate, tutto via. E poi adoravo quella prospettiva: la strada lunga e dritta, fiancheggiata dalle case basse e regolari che si susseguivano ordinate verso la Fontana Luminosa e il Gran Sasso, là in fondo, muto a osservare. Eccolo, il Castello Cinquecentesco, quello con dentro il Mammuth.

Oh, questo lo ricordavo bene. E invece no, anche lì qualcosa stonava. Ricordavo mura più alte, un’atmosfera incantata in un parco più ampio e poi le corse sfrenate, le grida giocose “stai attenta, fai piano”; invece solo qualche turista, un lungo fossato, vuoto, e tanto silenzio. - Il Mammuth ci sarà di sicuro, andiamo a vederlo. - Hai notato quanto costa il biglietto di ingresso? Per uno scheletro? Andiamo, che è ora. Forse sì, era ora. Una mano pesante sul cuore.

La casa dei nonni era in collina, ma i nonni non c’erano più. Non era ricoperta di neve, la casa, e non c’erano fiori rossi davanti al portone. C’erano  invece gli zii, i cugini, un cane a tre zampe, ché l’altra era finita in una tagliola. - Non siete invecchiati – sei sempre la stessa – non siete cambiati – come stai bene – che fate di bello? – di bello che fai?…  Perché avete ristretto le stanze, perché non c’è più il tavolo grande, perché avete cambiato la madia, perché avete buttato la festa, il tintinnio dei bicchieri, le risate, i sogni, il Natale, i nonni, mio padre?… dove li avete nascosti? Lui masticava: - Senti che buona la pecora arrosto – gli colava grasso sul mento.  Dove ho lasciato le mie ali dorate, dove ho perduto entusiasmo e fierezza, dove è finita la voglia di cantare? dove ho sbagliato sentiero? - Vuoi un goccio di vino? – era vuota ormai la bottiglia.  Perché nessuno mi chiede da grande che cosa farai?  Da dove arriva questa nuvola scura? Di chi è questa mano pesante?

– Cos’hai? Ti sei raffreddata? – si era scosso dal dormiveglia e mi guardava di sbieco. - No, è l’aria condizionata. Mi fa venire la sinusite –  mi asciugavo gli occhi col dorso della mano, tirando su col naso, cercando di non perdere la concentrazione sulla guida. L’autostrada – al rientro – si snodava insidiosa per via della pioggia pesante che bagnava l’asfalto e per quelle lacrime che pizzicavano gli occhi e spingevano forte, spingevano. A che era servito quel viaggio?

Non avevo trovato risposte. In compenso ero stanca e avevo voglia di piangere e tornare bambina e invece dovevo anche guidare perché lui aveva bevuto e non era in condizioni di farlo. Eravamo in vista dell’ultimo autogrill, quasi alla fine dell’autostrada. - Fermati qui – si toccava la pancia. - Ma siamo quasi arrivati – accendevo la radio. - Ti dico fermati, dai – sembrava impaziente. Rallentai l’andatura, entrai nel piazzale e piano accostai al marciapiede.

Il resto accadde in un attimo. Aprì lo sportello, scese, chiuse lo sportello, fece un passo verso il bar, due passi, poi di corsa. Senza aspettarmi, svelto per ripararsi dalla pioggia, senza voltarsi. Io non avevo spento il motore. Rapida ingranavo la prima e ingoiavo un respiro: non dovevo pensare. Giù il piede sull’acceleratore. Subito la seconda, la terza. Veloce. Via! Senza voltarmi. Tremavano le mani e tremava il cuore, ma ecco affiorare un sorriso: dicevo addio alla bambina e ai suoi rimpianti, ai sogni perduti.

Spalancavo i finestrini e lasciavo entrare la pioggia, che spruzzava il mio viso, le mani, il volante, la tappezzeria: era fresca e gioiosa, rideva con me. Alzavo il volume della radio, cantavo in inglese con lei. Svaniva la nuvola nera,  avevo scacciato la mano pesante. Ero quasi al casello, ora; una lunga fila in attesa. Pioveva ancora, ma piano; il tergicristalli andava lento, di nuovo silenzio. Si stava facendo buio, le luci delle auto ferme davanti a me scintillavano: una lunga scia rossa, rosso sangue, che si allargava a dismisura e concludeva quel viaggio. Non era indolore, ma uno strappo necessario. Dovevo pagare il pedaggio, poi la strada tornava mia. E io tornavo a viaggiare.

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