Un angolo di mondo

Un angolo di mondo

di Lucia Sandiano

E’ un viaggio senza piani volo da verificare, senza biglietti da acquistare, senza valigie da preparare. E’ un viaggio senza orari, senza guide turistiche da consultare.

E’ un viaggio senza itinerario, senza compagni a cui presentarsi. E’ un viaggio dentro un mondo vicino e lontano, stretto fra l’autostrada, il fiume, un pezzo di prato, un cumulo d’immondizia.

E’ un viaggio ai confini di un mondo dove si parla un italiano pesante, grezzo, con un marcato accento straniero. Un italiano che si fa finta di non capire quando conviene essere stranieri.

E’ un mondo dove le vie sono file di roulotte, camper, baracche, tettoie, in un groviglio indefinito di lamiere, automobili, ferro, legno, fili, cointainers, furgoni, assi, bambini, cani, rottami, pezzi di cartone, stracci, assemblati in un insieme caotico e confusionario.

E’ un universo d’odori, dal legno acceso nelle stufe alla carne sul fuoco, dalla spazzatura a quello di sudore e di pipì, dai cani bagnati ai copertoni bruciati.

Un mondo senza indirizzo.

Un mondo di persone senza identità, senza documenti, senza il permesso di abitare nell’unico paese che conoscono. Marchiati come bosniaci, serbi, croati, cittadini di paesi che non hanno mai visitato e che non sanno neppure dove si trovano. Hanno mille e più identità, mille e più date di nascita, mille e più soprannomi. Rom, nomadi, zingari, gitani, li si può chiamare in mille modi.

Entri nella loro città, in un angolo di periferia, e i bambini arrivano in gruppo come in tanti altri paesi del mondo. Ti toccano, ti chiamano, hanno bisogno di qualcosa, ti salutano, ti guardano con occhi curiosi e piedi scalzi sulla terra.

Vestiti larghi, informi. Nasi moccolosi. Mani rovinate da graffi di giochi che non sono giochi. Capelli arruffati, tinti di biondo. Sorridono mentre ti sfiorano la mano e corrono via veloci, attirati da qualcosa d’altro. Insieme, vocianti, ad inseguire un filo, un bastoncino di legno, un pezzetto di carta colorato strappato da qualche scatola vuota.

Le donne sui loro alti tacchi, lunghe gonne colorate e vistosi gioielli, t’invitano a sederti con loro.

Ti preparano un caffè denso e fumante.

Ti offrono una sigaretta.

Ti fanno leggere fogli che non sanno capire.

Odore di sudore appiccicato alla pelle, d’asfalto che scotta sotto il sole, di fumo, di cibo che cuoce. Ti chiedono di te, convinte che ogni donna si possa realizzare solo con il matrimonio e con i figli che riesce a partorire, mostrando assoluto rispetto e ubbidienza verso il marito e la sua famiglia che decide, pensa, parla al posto loro. Spose bambine dalle dita ingioiellate.

Un neonato aggrappato al seno, un altro attaccato alle gambe. Mani che si sporgono per chiedere e prendere. Mani minacciose che lasciano i segni sul corpo desideroso di qualche distratta carezza. Mani piccole di bambini che graffiano il giorno.

E’ un viaggio senza zaino e senza souvenir da riportare a casa verso un angolo di mondo perduto in una qualsiasi periferia.

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