Un Pugno di Sale

Un Pugno di Sale

di Laura Rescio

A Vroukounda su un muretto c’è un pugno di sale marino. Sembra che qualcuno sia
appena andato via, ma non c’è nessuno. Davanti le spiagge deserte e il mare blu, in
lontananza una punta brulla dell’isola. Non un’anima viva.
Da Avlona, paese quasi disabitato con case sparse, strade polverose e rare pergole di vite
o zucca, siamo passati per i campi aridi tra i muretti a secco. Dopo una galleria di alberi
di fico inizia la discesa. In mezzo al grigio-marrone-verde bruciato-giallo, una chiesa
bianchissima. Si arriva sul mare, dove un tempo c’era la città di Vrikous. Restano enormi
rocce grezze scavate da buchi che un tempo ospitavano persone o animali.
A sinistra c’è una grande tettoia e poi un forno, una griglia, un tabernacolo scavato nella
montagna, turiboli dorati appesi in alte nicchie. Si scendono le scale fino a una chiesa
scavata nella roccia, nella penombra si delineano l’iconostasi di pietra bianca, l’altare,
il fonte battesimale di pietra, grandi fasci di basilico profumatissimo. C’è stata da poco
la festa di san Giovanni: ogni anno gli abitanti della zona arrivano qui a piedi e in barca,
passano la notte qui.
Ci si sente quasi sopraffare dal silenzio, dalla solitudine.
Il mare è caldo e calmo, trasparente, sott’acqua scogli color ocra gialla chiara. Il vento
mi sfoglia il taccuino sotto la penna. Non piove mai. L’ultima volta a marzo. Colline
color sabbia con cespugli spinosi dai fiori gialli, salvia inaridita ma viva, pini bassi e
piegati all’estremo dal vento, si passa per campi di erba gialla pieni di olivi marroni e
secchi. Le spiagge sono grigie e ciottolose, la terra rossiccia. I sentieri tutti sgranati di
selci che franano e polvere, a volte strade di sassi grigi e irregolari.
Verso le sei del pomeriggio nella chiesa deserta un lampadario gigantesco proietta un
caleidoscopio di luci che girano lentamente sulle panche, sulle icone. A destra, prima
dell’iconostasi, un grande vassoio di legno con al centro una grande candela di cera
d’api, pieno di kollyva – grano cotto mescolato a zucchero, mandorle, uvette –
commemora i morti.
Le donne anziane hanno abiti tradizionali, bianchi con un grembiule dalla fascia nera in
vita o completamente neri, un copricapo nero a nascondere i capelli. Le ragazze si
vestono come da noi. Maria gestisce una taverna che più che altro è una vecchia casa
con un cortile verdazzurro sotto una pergola di vite americana. Molti ci vanno anche solo
per la sua bellezza e gentilezza. Ti porta in cucina e ti fa vedere il contenuto delle
pentole, coperte da fogli d’alluminio. È tutto molto semplice.
Anche gli uomini anziani hanno una sorta di uniforme: pantaloni lunghi, camicie azzurre,
capelli bianchi tirati indietro. Si trovano tutti al kafeneio a giocare e a bere ouzo o un
vino bianco aspretto e contadino, leggero.
A destra della passeggiata c’è un posto dove il cuoco un po’ poeta suona la lira. Il
nipotino strimpella il bouzouki, gli occhi seri e preoccupati fissi in quelli del nonno.
Profumi di kritamo, bergamotto, cumino.
Quando risaliamo da Vroukounda ci fermiamo alla taverna di Avlona.
Dentro la signora Annoula, vestita di bianco, un copricapo con fascia colorata sulla
fronte, fa i makarounes e ci fa vedere le foto della sua famiglia, stampate e su
Whatsapp. Un’intera famiglia, nonna mamma e nipote, passa con lunghe tavole di legno
coperte di panini da cuocere nel forno del paese. Finiamo con quattro fichi neri e due
piattini di uva passa sciroppata che sa di garofano e cannella. Sui tavoli c’è il sale
marino in contenitori con un tappo blu.

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