Mio Cugino
di Andrea Bernabeo
Mio cugino frenò la corsa della vecchia bici, sollevando una nuvola di polvere riarsa. Poi alzò lo sguardo al cielo. Faceva ogni volta così, del resto, nelle giornate d’estate che trascorrevamo giocando dietro casa, in un campo di maggese battuto dal sole che costeggiava la pista di un piccolo aeroporto. Lui amava gli aerei.
E per me questa era una ragione più che sufficiente per andare con lui fin giù alla pista, ogni giorno, ed accompagnare con lo sguardo l’aereo di mezzogiorno fino a che si infilava, come uno spillo, nella piega più soffice dell’orizzonte.
Diceva che da grande avrebbe fatto il pilota, e che il suo aereo avrebbe avuto il fondo di vetro così che i passeggeri avrebbero potuto unire con lo sguardo tutte le città del mondo, come tanti puntini congiunti dal tratto di una matita.
Quel giorno fermai la bici avendo cura di starmene qualche metro dietro di lui: mi sembrava uno zelo dovuto, vista la solennità che quel momento aveva per mio cugino. L’aereo, imbarcata una torma chiocciante di turisti, raggiunse la pista insicuro come un gabbiano che esplora la terraferma. Fu allora che mormorò «Prenderò la coda di questo aereo e vedrò il mondo». Quindi, appena l’aereo iniziò la sua rincorsa per afferrare il cielo, saltò sui pedali. Rimasi perplesso. Quando l’aereo decollò, lui correva disperatamente sul bordo della pista, cercando di staccare le braccia dal manubrio per aprirle come fossero ali.
Quando del gigante d’acciaio non rimase che un puntino in cielo lui ancora pedalava, fino a che non divenne lui stesso un puntino, vicino alla radura. Poi, scomparve anche lui.
Quella sera non rientrò. Sentii la zia piangere e la nonna snocciolare il suo rosario. Io invece non ero preoccupato. Rimasi sul letto a sfogliare il suo libro di geografia e a far girare il mappamondo, perché sapevo che il posto dove lui si trovava era lì dentro. Leggevo i suoi appunti, aprivo a caso quelle pagine che odoravano di merenda per la ricreazione. Seppi che si trovava davanti al Tempio di Budda di Giada a Shangai, o sulla catena montuosa dell’Altai, in Mongolia. Avrebbe visto il Huang He, il fiume giallo dei cinesi, o le vallate dell’altopiano del Loes. Lo sentii d’un tratto lontano, e quella distanza mi permise di misurare la grandezza del mondo.
Quella sensazione fece maturare in me la consapevolezza, mai più sopita, che viaggiare non vuol dire vedere nuovi continenti, ma avere nuovi occhi per guardarsi dentro. Fui fiero di mio cugino.
Lo trovarono il mattino seguente. Mentre mio zio, furibondo, lo trascinava in casa per un braccio, lui mi fece l’occhiolino. Dissero che l’avevano trovato nella radura, mentre dormiva, sfinito. Ma io non ci ho mai creduto. E per tutto il resto dell’estate, ogni giorno andai in bici vicino alla pista battuta dal sole. A correre, con le braccia aperte come ali, cercando di afferrare la coda di quell’aereo.