2° Classificato 2021 – Le vie dei cunti di Alessio Di Modica

Le vie dei cunti

di Alessio Di Modica

Quand’ero piccolo di sera mio padre mi portava sulla terrazza di casa, mi faceva vedere le industrie: lucette che salivano e che scendevano, diceva gonfiandosi il petto “quello è il futuro, è il presente. Io lavoro lì”.

Ogni volta che ci passavamo davanti mi sembrava di stare in una fiaba con 220 giganti con la testa bianca e rossa che dominavamo 22 chilometri di costa, migliaia di chilometri di tubi che per me erano braccia che si intrecciavano e penetravano la terra. I fumi neri che buttavano nel cielo azzurro d’estate erano pensieri che non comprendevo.

Tutto mi sembrava normale, come se fossero sempre stati lì, “del resto” pensavo “cosa c’è più forte del metallo?”

A distruggerlo bastava mio nonno con mani grandi da pescatore e calli sui palmi scavate dalle reti e dal sale.

Mi parlava del ventu all’uffu: al tramonto la terra restituiva l’aria calda che aveva preso durante il giorno, l’aria saliva, sbatteva sul vulcano e creava questo vento, mi diceva che quando nella stagione buona andava in Calabria con la barca a remi per pescare, il ventu all’uffu lo accompagnava.

Mi raccontava di pesci magici, che parlavano agli uomini, di storie inventate per insegnare il
mestiere ai bambini, di lunghe ore di solo mare in cui bisognava inventarsi altre storie per far passare il
pensiero alle mogli e alle fidanzate lasciate sole a casa.

Mio nonno mi parlava del golfo, ricco, pieni di posti e di fatti; erano racconti pieni di colori, di creature, di parole antiche che suonavano familiari, vive non morte, parole che mi rimbombavano dentro.

Poi diceva che questo golfo era diventato porto industriale e tutto era cambiato: non più pesci, non più cave in fondo al mare, non più praterie dove pescare, non più parole piene di suono e di evocazioni.

I pescatori padroni assoluti del mare erano diventati estranei, costretti a cercare altri lavori, per quelli che non volevano fare gli operai.

Uscivo da casa dei miei nonni e quei giganti di fumo e metallo non mi sembravano poi così belli, anzi a volte sembravano mostri.
Ma nessuno, neanche mio nonno, parlava male delle industrie: il progresso, il lavoro, il futuro, etcetc.

Per non farmi mancare mio nonno ho deciso di diventare cuntista e raccontare io stesso le storie, raccogliendole dalla strada.

Così ascoltando i vecchi pescatori mi si rivelavano strade sepolte, oscurate, coperte dall’illusione della possibilità di uscire dai mestieri duri della campagna e del mare; ma dietro quella promessa di progresso c’era un prezzo alto da pagare: devastazione del territorio, morti di cancro, vecchi mestieri e rapporti con la madre terra distrutti in ogni sua forma, anche nella memoria.

Nulla si può più salvare di quei luoghi, ma raccontando tutto si può ancora salvaguardare, come faceva mio nonno nella mia mente creava quel mondo, quel paese non personale, quell’ immaginario collettivo, che è l’anima di un piccolo pezzo di questo mondo in cui i confini non sono dati dalle frontiere, da un muro, da una dogana ma dal mutare delle storie, dalle loro piccole infinite varianti che collegano i territori.

Oggi accadono cose simili in Senegal in cui pesca industriale, europea ed asiatica, uccide la pesca artigianale, nel golfo del Bengala in cui le barche dei pescatori sono minacciate dai grandi mercantili e dalle petroliere, in Giappone dove l’inquinamento ha devastato baie.

Le storie creano una geografia interiore di una comunità, indicano sentieri e vie che attraversando l’anima di quel popolo diventano mari immaginari in cui incontrarsi.

Il passato non è alle nostre spalle ma sulle nostre spalle.

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