1° classificato 2023 – Cuore di ruggine di Clara Valenzani

Cuore di ruggine

di Clara Valenzani

Le gambe si fanno rotaie, il corpo si allunga. Il treno diventa un’unica, pesante creatura vivente, ma sul vagone i respiri non si uniformano, le vite non si sincronizzano, non avanzano in simbiosi. Nell’ecosistema in marcia ognuno ha i suoi ritmi. Esposti. Come una casa senza pareti.

Procediamo da Almaty, quasi al confine con la Cina, ad Aqtau, sulle rive del Mar Caspio. Tagliamo le steppe del Kazakistan: una ferita che non sanguina, incisa da un bisturi d’acciaio, persa in un universo punteggiato di fili d’erba rinsecchiti. Hanno l’aria appuntita e scomoda. Addosso, questa ferrovia sarebbe un taglio sottile, lungo, come quello creato da un foglio di carta. L’instabile rifugio di lamiera si anima per 53 ore: 3 notti, 2 giorni e poco più, il tempo necessario a percorrere quest’arteria nel sud del centrasia.

Instancabile, l’orchestra di bordo continua ad esibirsi facendo sfoggio della sua anarchia. Qui un colpo di tosse, lì un grugnito durante il sonno. Eléna parla al cellulare, la sua voce sorpassa gli Urali, giunge forte e chiara fino a suo figlio. In questa pianura senza ostacoli, la linea non crepita. La terra dura si intenerisce, il paesaggio scarno è benevolo: non c’è motivo di aumentare la distanza tra i due. Aquile percorrono cieli e suoli sgombri, prestano la loro voce ad Eléna: “Auguri, Dias. Oggi sono 35”. “Grazie, mamma”. Anche se è lontana, gli occhi d’ambra di lui la vedono. Da quando sono grigie, le sue piume?

Toroton toroton toroton, lo sguardo si perde, il suono ripetitivo delle ruote si fonde coi timpani, sottofondo costante, compagno tra le orecchie. È una musica di ferro ancestrale: il tamburo dei baksy, gli sciamani della steppa. Forse hanno evocato questo riparo improbabile dalla notte dei tempi: il Talgo 077 è un’idea arrugginita, un pachiderma sovietico arrivato fino a noi. Attraversa praterie preistoriche anno dopo anno, provato dagli inverni, rattoppato qua e là; un gigante saldato grezzamente nel clangore di una fabbrica, in una città il cui nome finisce per -irsk. Avanza, macinando km, animato da fragilità umane che scorrono nelle sue vene e lo appesantiscono con destini, speranze, gioie, bagagli emotivi e sacchetti colmi di ruote di pane, pressati nelle cappelliere. Il suo cuore sferraglia, cigola, tartaglia, stride; a volte la sua voce è morbida, rilassante, confortante, altre acuta, nervosa, isterica. A tratti chiede di rallentare, il desiderio sottolineato da un odore acre di freni bruciati. Talvolta sembra troppo stanco per rimettersi in cammino. Eppure, ancora resiste. Incede. Porta nuova linfa in zone dimenticate, pulsa tra pigri villaggi dai nomi sconosciuti.
Vive.

Kopa, Timur, Aral-Kum, Zylan, e la penultima fermata, Shepte. Eccoci: apro la porta del vagone. Il coro senza direttore si dissolve, riversandosi all’esterno. La cuccetta è pronta ad accogliere nuovi volti: sarà il loro spazio sicuro mentre attraversano luoghi sfuggenti e coni d’ombra, saranno messaggi in bottiglie ben tappate, apparentemente alla deriva in un mare di bassi steli. Storie vergate da mani tremanti d’età o dita ben curate, calamai e stampanti laser.
Scendo. Là in fondo c’è la sabbia bianca e salina del deserto del Mangystau, miraggio ovattato di bianco, oceano giurassico.
Boccheggio inspirando aria umida e salmastra, che si appiccica in gola.
Alle mie spalle, il pomello scrostato risigilla la porta. La casa torna ad avere pareti, le gambe ridiventano carne, sangue, muscolo. Il viaggio sono di nuovo io.
Sotto i piedi, ora la terra è ferma.
Ma sulla banchina, sopra ogni passeggero, aleggia un pezzo di quel cuore di ruggine.

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