Un sogno lungo 143 stazioni
di Angela Mori
“… e non scendi mai? “
In tanti mi hanno fatto questa domanda prima di partire.
“No, non scenderò”.
In realtà ogni tanto scendo. Alle stazioni dove il treno si ferma per pochi minuti, scendo per sgranchirmi le gambe. Avanti e indietro sul marciapiede del binario come fanno i condannati a morte, mi guardo intorno, scatto una foto, a volte compro qualcosa da mangiare, ma soprattutto tengo d’occhio Galina. E lei tiene d’occhio me. Quando incrocio l’orologio col suo sorriso capisco che è il momento di risalire.
Galina ha i capelli rossi che sono sempre in piega. E’ la “provodnitsa” del vagone 10. Controlla il biglietto quando sali, ti informa sulle regole da rispettare, ti dice quando ci stiamo per avvicinare ad una stazione e quanti sono i minuti “d’aria” di cui puoi godere, accoglie i nuovi passeggeri durante il tragitto, passa l’aspirapolvere al mattino, pulisce i vetri dei finestrini del corridoio e soprattutto regala sorrisi che ti fanno sentire al sicuro.
Stare su un treno per una settimana è un po’ come essere malata e un po’ come essere detenuta. Passi la maggior parte del tempo sdraiata e a sedere condividendo il piccolo spazio dello scompartimento della seconda classe con altre tre persone.
Galina è stata la mia adorabile carceriera, la mia integerrima caposala.
A Khabararovsk è salita Elena.
Nelle ultime 36 ore si è aggiunta anche Tamara con la sua passione per la musica, l’Italia e Toto Cutugno.
A Vladivostok, poche ore prima della partenza, ho provato quel senso di angoscia che mi assale ogni volta che devo intraprendere un viaggio. Un’angoscia difficile da accettare.
Poi sono salita sul treno. E quei 6 giorni, 17 ore e 22 minuti che mi aspettavano prima di arrivare a Mosca hanno iniziato a prende corpo.
Temevo di contare i giorni, le ore e i minuti che mi separavano dalla fine di una prova di resistenza. Ho finito per contare i giorni, le ore e i minuti che invece mi separavano dalla fine di un sogno.
Già, il tempo.
Il tempo sulla transiberiana perde i suoi nomi abituali. Non è più lunedì, giovedì o domenica. Non è mattina, pomeriggio o notte. Il tempo assume i nomi delle stazioni in cui si ferma il treno e il numero di minuti di permanenza nelle stesse.
Poi c’è lo spazio.
Nessuna foto, nessun filmato potranno mai restituire la magia dello stare al finestrino ad aspettare quello che verrà dopo. Il paesaggio che cambia in continuazione passando dai boschi fitti di vegetazione alle verdi praterie intervallate da fiumi, ai laghi e pozze d’acqua nate dal disgelo primaverile, alla steppa che termina dove le nuvole cadono a terra, non possono essere trattenute da una foto. C’è sempre qualcosa di più, di nuovo, di diverso che ti aspetta guardando dal finestrino del treno in corsa.
La transiberiana è il paradiso dei pigri. Il paradiso di chi non ha voglia di far niente e per una settimana viene sollevato dall’obbligo morale di fare, parlare, ascoltare, camminare, produrre, occuparsi degli altri e del mondo.
Con Elena abbiamo stabilito da subito un codice di comunicazione fatto di sguardi, gesti e poche parole in russo magicamente riaffiorate dal passato.
A volte mi prende il dizionario, cerca una parola, mi indica il significato. Ci guardiamo, ci aiutiamo con i gesti e da una parola riusciamo a ricostruire dei concetti.
Mi sforzo di capire guardandola mentre mi parla. E non sempre ci riesco. Ma mi piace così.
In tanti mi hanno chiesto prima di partire perché volevo viaggiare sulla transiberiana senza scendere mai.
Perché volevo tutto questo.
Perché volevo incontrare Galina, Elena e Tamara.
E le ho incontrate.