L’anima del Marocco

L’anima del Marocco

di Laura Muraglia

All’aeroporto di Nizza era come prima di un esame, in attesa di un verdetto che dipendeva da qualcun altro. Il viaggio che io e le mie compagne avevamo tanto preparato, trascorrendo serate a confrontarci sui possibili esiti, stava per iniziare. Tuttavia, quando atterrammo a Casablanca, capimmo che quello in cui eravamo giunte non era un posto nel mondo, che l’avventura che stavamo per vivere non era un viaggio qualunque, ma una persona sconosciuta, come un nostro lontano parente che incontravamo per la prima volta.

Gli occhi del Marocco sono a Rabat. Qui facemmo la nostra prima colazione marocchina, in una pasticceria vicina al mercato ortofrutticolo sul confine della medina più vicino alla città nuova. Nel locale, accogliente anche se trascurato, le mosche e le vespe si posavano mai sazie sui dolci esposti con cura nella vetrina, su quelli alla frutta che a sinistra riempivano vassoi rettangolari, quelli al centro, di mandorla e miele, che adornavano piatti arrotondati e, infine, sulle sfoglie guarnite di crema e scaglie di mardorle che chiudevano la fila verso destra. Attorno al caffè, i venditori di frutta, gridando, attiravano i passanti nel disordine mattutino della medina.

Costeggiando le mura brulicanti di commericanti, giungemmo alla kasbah degli Oudaia, il quartiere storico diroccato verso il mare, dove le case bianche e blu ricordano i piccoli centri nelle isole mediterranee della Grecia, le stradine intricate riportano la mente ai familiari carrugi liguri, incrociandosi e perdendosi in vicoletti stretti e ciechi, come la vecchia vagabonda che ci chiese qualche Diram per posare con noi in una foto. La spianata posta sul culmine della kasbah domina la costa sottostante, animata dai lavori di ampliamento della diga del porto, e, a sud, la spiaggia, dove i ragazzi giocano a football a torso nudo, fino ai pescherecci alla foce del fiume Bou Regreg, che divide Rabat da Salè.

Fu qui che una ragazza decise di vendermi il tatuaggio all’hennè e io accettai senza aver imparato l’arte del contrattare, il modo usuale per commerciare qualunque cosa in Marocco – perché qualunque cosa si può commerciare qui.

Più sotto, ci accolse il giardino della kasbah, magico scrigno di colori: l’arancio dei frutti, il rosso amaranto dei fiori, l’azzurro degli chador delle studentesse sedute sulle panchine a leggere, il bianco del camice dei camerieri del caffè che, poco distante, offre un momento di riposo ai turisti seduti sulle sedie di vimini all’ombra dei teli. Fu lì che incontrammo gli occhi sorridenti, il curioso interesse di Rabat nei confronti dello straniero, la cura in ogni gesto, la pazienza e la voglia di far conoscere le proprie tradizioni, l’ospitalità. Tutto ci portò a pensare di essere a casa e non in viaggio.

Nella parte più povera della medina di Rabat, la Mellah, come in ogni altra città marocchina, la vita va avanti anche per chi non ha niente oggi, grazie alla solidarietà dei vicini di casa, che compiono azioni buone per rendere felice il loro Dio. Gli abitanti di Rabat ci accolsero a piedi nudi nelle loro case della medina, dalle grandi sale attorniate dai bassi e stretti divani foderati di raso, ci offrirono pollo, salsa di barbabietola e fichi, da assaporare con loro dallo stesso piatto, con il pane.

Se tutte le città riuscissero a vedere come vede Rabat, allora, forse ci sentiremmo un po’meno diversi.

Le gambe del Marocco sono a Fes, le gambe con cui le donne e gli uomini si arrampicano per le impervie viuzze delle labirintiche medine, carichi di cesti, come gli asini condotti a trasportare ogni genere di merce di prima necessità: cibo, bevande, pane, persino le bombole del gas. E le gambe degli uomini e le zampe degli asini, colte dalla stanchezza, si muovono a scatti, nella continua ricerca di uno spazio, un antro in cui trovare la via del cammino, in mezzo alla folla di persone che comprano, vendono, parlano, ai bambini che corrono e schiamazzano, ai cani e gatti dalle magre forme. Tutto il caotico movimento delle colorate medine rende il cammino discontinuo, lo sbandamento dei corpi delle figure che animano la città sembra rispecchiare la continua ricerca di equilibrio di Fez, dea insoddisfatta ma orgogliosa e convinta delle proprie potenzialità. Sul suo dorso sono conservati tutti i segni della sua forza e rassegnazione, come quella degli uomini addetti alla colorazione delle pelli immersi a cielo aperto nelle tinozze di terracotta.

Forse per questa perpetua ricerca, Fez dona energia anche alle mani del Marocco, attraverso l’operosità ingegnosa dei suoi artigiani, dei lavoratori che, pazienti, intagliano il bronzo bendati da una lente di ingrandimento, delle donne che, con incredibili rapidità e precisione, fabbricano i tappeti rannicchiate sui telai, dei sarti e dei filatori, dei venditori di spezie che mostrano le erbe tradizionali ai turisti condotti dalle guide ufficiali alla scoperta dei labirinti della città. Acquistammo alcuni grammi di zafferano, l’oro del Marocco, in una bottega di spezie e ascoltammo con attenzione il venditore, mentre parlava delle portentose magie delle erbe del deserto, che possono guarire qualunque tipo di malattia, se Dio vuole, “Inshallah”.

Si può udire la voce del Marocco a Marrackech, quando, soprattutto al calare della sera, chiromanti, indovini, oratori, suonatori e incantatori di serpenti giungono da tutto il paese e si radunano in piazza Jamil a Fna, e si esibiscono per i passanti. Tutti li ascoltano: gli abitanti di Marrackech, i marocchini giunti da altre città per lavoro, studio o piacere, i numerosi turisti curiosi. Tutti sembrano capire la stessa lingua in questa piazza, mentre i fumi e gli odori delle cucine e le luci delle bancherelle sparse per la piazza, rendono l’atmosfera particolare e suggestiva.
Tentammo di pescare una bottiglia con la canna da pesca, ma non ci riuscimmo, pur essendoci andate molto vicine.

La pelle del Marocco è sul corpo di Essaouira, con il suo caldo sole che sembra non essere caldo come nel resto del paese, perché in continua lotta con il vento che, spirando da ovest, avvolge tutto ciò che incontra: i corpi dei bagnanti, i capelli lunghi delle donne, i visi arsi dei pescatori, le vele dei wind surf.
Tutte le pelli incontrano il vento di Essaouira e vengono rinfrescate dal suo freddo mare che, con le lunghe onde oceaniche, sembra un tessuto blu cobalto mosso dalle braccia di un qualche spirito lontano. Sarà forse un demone animato dai riti di Ighinaua, dai canti e dai balli ancestrali dei suoi abitanti.

L’anima profonda e antica del Marocco si trova nel deserto. La si scorge in prossimità di Merzouga, quando, abbandonati il paesaggio di sassi, oasi e kasbah che si incontrano fino ad Hissani, l’orizzonte viene colorato da uno strato di colore giallo ocra. Da linea quasi impercettibile, la sabbia assume colori sempre più intensi, forme e dimensioni sempre più chiare e visibili, fino all’arrivo alla verità, della purezza delle dune, completamente nude, nude come il primo uomo e la prima donna nei giardini dell’Eden.

Nella kasbah fatta di fango e paglia, giaciglio delle nostre notti, nelle tende dei nomadi in cui trovammo rifugio, ci accolsero l’odore del the alla menta, versato dal cielo alla terra, l’allegria della musica berbera, i versi dei dromedari e il silenzio della notte secca e fresca sotto il cielo del deserto. E’ strano come nel deserto guardare il cielo ti conduca a vedere lo spazio muoversi in vortici infiniti, fatti di universi lontani, sconosciuti come ancora sconosciuta è l’anima del Marocco. Tentai di scrutare gli astri nel deserto, ma non riuscii a seguirne il movimento. Allora, chiusi gli occhi e ne ascoltai la voce. Fu allora che iniziai a pensare a quanto la mia vita, pur così insignificante di fronte alla maestosità e completezza dell’universo in continua espansione, sia un tassello così importante e unico del grande mosaico della natura che ci circonda.

Distesa sulla sabbia, ai confini del Sahara, l’anima del Marocco mi fece scorgere per la prima volta una ragione alla mia vita.

Il caldo Marocco ha una mente lucida, ha molta memoria e un cuore resistente, grazie ai suoi abitanti, alla scaltra allegria di Sahid e Mustafà, i nostri condottieri del deserto, alla dolcezza e bontà di Mochtare, nel servirci i dolci alle mandorle nel caffè di Rabat, alla pazienza di Nabil nel condurci per le vie della medina, alla sua ostinazione e testarda volontà di conoscere ed essere conosciuto. Scorgemmo il cuore del Marocco nel sorriso di Mohamed e nell’accoglienza di sua sorella, durante la preparazione del tajin di pesce fresco nella loro casa ad Essaouira, nella gentilezza della mamma di Nabil, nel viso sereno di Sahid, il venditore di cianfrusaglie e tuaregh.

Tutti cercavano di vendere qualcosa ma sapevamo che, anche se non avessero avuto successo, sarebbe loro bastato un sorriso per essere soddisfatti. Per questo sono gli abitanti il cuore e la mente del Marocco, vecchio tradizionalista, ostinato, orgoglioso ma, al tempo stesso, giovane e moderno esploratore.

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