L’ascensore

L’ascensore

di Rossella Dominici

Guardo le pareti e mi chiedo perché non l’abbiano colorate di un giallo savana, un verde baobab o di un rosso cielo sera d’africa. Invece, sono di un giallo elettrico irritante e di un nero notte senza speranze.
Tutto il resto è rigorosamente grigio metallico. Le porte sono automatiche e completamente impenetrabili alla vista.

Non è un bunker. E’ l’ascensore del mio palazzo.

Il palazzo è un palazzo popolare di periferia.

Ogni mattina quando esco, incessantemente, mi assale, non tanto la paura di rimanere bloccata nello spazio angusto di un brutto ascensore, quanto uno trasbordare di sensazioni sgradevoli.
La sveglia mattutina è quella del telefonino, il suono è metallico, ripetitivo e impietoso. Sembra già preannunciare che non sarà facile…

Senza coscienza di chi sono e cosa faccio, mi alzo dal letto e inizio a camminare per la casa attratta, quasi ipnoticamente, dalla luce del sole che invade il salone. Dal mio letto lascio visibile la finestra, cosicché la luce del sole mi colpisca appena apro gli occhi. Succhio da lì l’energia per muovere i primi muscoli.
Incomincio a gironzolare nella casa. A piedi nudi calpesto il coloratissimo tappeto marocchino, metà peloso, metà kilim, che ho nel salotto. E lì, il mio secondo senso, dopo la vista, riprende vigore. Il ricordo dell’acquisto è vivido. Era una giornata caldissima ai margini del deserto marocchino… per un po’ d’ombra avrei comprato qualsiasi cosa….

Ma questo tappeto mi aveva colpito, era allegro, era audace, così come mi sentivo. Gli altri ragionavano sull’acquisto, sull’abbinamento con i mobili, su dove metterlo. A me attraeva perché era un po’ difficile. Era un tappeto che ti faceva osare.

Mentre lo calpesto, e sento solleticare la pianta del mio piede con un’emozione che attraversa il mio corpo dal basso verso l’alto, getto un’occhiata verso una banale mensola di legno, ad una coppia d’ebano scolpito, souvenir della Tanzania, ad un uomo ed ad una donna così vicini da sembrare un unico corpo. Li guardo – quei due – io che vivo sola e soddisfatta. Un attimo e, dopo, non ne sono più così convinta…
Su quella mensola, una specie di luogo di culto, testimonianza di tante morti e di tante rinascite, ci sono le foto di alcuni attimi vissuti altrove dai miei luoghi. Irriconoscibile, avvolta in un telo, cavalco un dromedario nel deserto marocchino; rilassata e sdraiata su un grosso tronco alla deriva su una riva zanzibarina dell’Oceano Indiano; rigida e triste fra i mosaici dell’Andalusia e così consapevole, da spaventarmi, dei tanti anni sprecati, ostinatamente in difesa dell’indifendibile; una volta – finalmente! –  snella fra le palme cubane.

Mi guardo intorno e vedo il profilo della grande maschera d’ebano africana, la sciabola marocchina, un quadro zanzibarino con le giraffe e gli ippopotami, qualche maracas cubana, due panoramici scorci azzurri, gialli e bianchi dell’isola greca di Santorini, una copia di un Van Gogh preso ad Amsterdam. Insomma, giro per la casa e sono felice, mi sento come non riesco mai a sentirmi e percepisco la serenità che mi pervade… la bocca – non la vedo – ma so che mi sorride.

Entro nel bagno e mi lavo. E mentre sto lì, un po’ inebetita dall’abitudine e dai ritmi quotidiani, mi sovviene l’alba nel Serengeti, dove dopo una notte in tenda non avevo neanche un goccio d’acqua per lavarmi e… che libertà!…che benessere!

Mi trucco e mi vesto. E già il pensiero vola di nuovo, questa volta a Londra, dove per un mese intero, non mi sono mai preoccupata degli abiti e dei colori da abbinare. Era l’energia che mi muoveva, era l’incontro e scontro di culture che mi faceva comprendere che l’importante era sentirsi non fuori ma dentro i panni che indossavi. Incredibile scoprirlo, per me, che sono figlia di una mediocre borghesia di provincia.
Insomma, finalmente sono pronta ed esco.

Chiudo la porta e, nel mentre, mi colpisce alla vista l’ultimo spicchio di sole che taglio definitivamente.
La porta è ormai chiusa.

MI GIRO. Il pianerottolo è senza finestre. Sono le otto del mattino ed accendo la luce.
C’è silenzio, mi sembra. In realtà, non ricordo. Lo scorrere delle emozioni si arresta. Pigio il tasto dell’ascensore e, nel frattempo, in fretta, torno indietro per dare due mandate alla porta blindata. Il tempo è cronometrato. Torno indietro di nuovo e l’ascensore è appena arrivato.

Basta un passo ed entro. L’aria è pesante. Sicuramente qualcuno ha fumato. Istintivamente abbasso lo sguardo. A terra, linoleum nero, opaco, stropicciato. Intorno, strette su di me pareti nere e gialle violente. Di fronte uno specchio, in cui si riflette la mia immagine immobile e cupa. Lo sguardo va sul tasto del seminterrato e sulla targhetta della ditta della manutenzione. Ogni mattina penso sempre la stessa cosa. Possibile che questa ditta di manutenzione, nel mio palazzo, nel palazzo di mia madre ed anche in quello del mio ufficio, sia sempre la stessa?

Sarà il buio, sarà il giallo violento, sarà l’immutabilità, ma un senso di angoscia mi assale, sempre.
Mentre i pensieri scorrono, cerco le chiavi del garage e della macchina. Le trovo e sono già arrivata.
ECCO. Quello che, in fondo, è un breve viaggio di qualche secondo, in cui ho appena il tempo di cercare le chiavi della macchina, si trasforma, per me, in un viaggio lungo, soffocante, incomprensibile, in cui, così come, forse, al momento della morte ti scorre innanzi tutta la vita, ora, qui, ti scorrono innanzi agli occhi i paesaggi sterminati, i colori veri e naturali, gli animali, i profumi, le voci. Te li ricordi. Ognuno ha i propri. I ricordi, le emozioni di un passato vicino o lontano nel tempo, vicino o lontano nelle distanze. Ti attraversa l’emozione. E allora, questa emozione, se sei fortunato – e io lo sono – te la ricordi quando stai lì dentro, o dentro quel che di angoscioso hai nella tua vita, e non capisci più che ci stai a fare lì … E in quei pochi secondi, il viaggio diventa davvero interminabile. Vorresti tornare indietro, non uscire da quell’appartamento….

Invece, è proprio lì dentro, davanti a quel giallo elettrico, in quello spazio angusto, che ti viene chiaro in mente cosa vuoi e cosa non vuoi. E lì dentro che ti viene chiaro in mente che il giallo è quello caldo, brillante del sole dei caraibi, o quello rossiccio dei tramonti africani, o quello che si riflette sulle verdi vallate italiane.

Il nero notte non è questo. E’ quello dei nostri cieli stellati o dei cieli africani con le stelle che ti stanno tanto sopra quasi da schiacciarti. E non ti senti oppressa da quelle stelle così sopra di te. Anzi, ti senti parte del mondo, dell’infinito, della natura.

Ma, mi chiedo, se non l’avessi vissuto, avrei mai capito che non è questo il vero giallo e che non è questo il vero nero? Avrei saputo, ogni volta, nelle difficoltà, riprendere la mia strada? Viaggiare è aprirsi al mondo, alle sensazioni, agli occhi di chi incontri, che sia vicino, che sia all’altro capo del mondo. E’ un metro invisibile per misurare che cosa va o non va della tua vita.  Che i viaggiatori abbiano bisogno di perdersi per poi riscoprirsi, per poi ritrovare, sempre, al ritorno, la vera rotta? Forse per molti è così. Spesso, lo è per me.

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