Recluso
di Antonio Antonelli
Mio padre era impiegato di concetto al Ministero dei Trasporti –
Azienda Autonoma Ferrovie dello Stato e gli spettavano 6000
chilometri l’anno in prima classe gratuiti (fringe benefit , si
direbbe oggi), per lui e ciascuno dei familiari.
Era per questo che viaggiavamo sempre in treno.
I viaggi della mia fanciullezza, e poi adolescenza, erano
Soprattutto viaggi in ferrovie locali, nel Lazio e Abruzzo, ove la
differenza di classe ferroviaria era segnata solo da un
poggiatesta di ruvida tela bianca, con impressa in rilievo la sigla
FFSS.
Erano un rito quei viaggi, la timbratura dei biglietti il giorno
prima , c’era uno sportello apposito alla stazione Termini,
con il progressivo del chilometraggio, totale a riporto più l’attuale;
sveglia e arrivo per tempo alla stazione, e controlli
ansiosi dell’ ora sul “Perseo” in dotazione; mia madre che
nella puntuale irritazione di mio padre si portava da casa una
bottiglina con il caffé che aveva preparato la mattina ,”cosi ,
giusto per bagnarmi le labbra ogni tanto …”, con quella
cadenza meridionale che le è rimasta attaccata sino alla
morte, nonostante cinquanta anni passati a Roma; il tu
immediato di mio padre con il controllore (“apparteniamo
alla stessa famiglia”), e poi lo sferragliare del treno sino a
stazioncine assolate, qualche sparuto albero che regalava
magri ritagli di ombra, minuscole mense ferroviarie per il
personale viaggiante, ma accessibili anche agli
amministrativi, come mio padre; talvolta, annesso, un rustico
campo da bocce.
Dopo, per molti anni, non ho più viaggiato.
Non avevo problemi di salute né particolari difficoltà economiche.
Era solo inedia, paura di fare, incapacità di decidere qualcosa,
qualsiasi cosa.
Coltivavo il rimpianto dei viaggi del passato, antichi, ma non
perché fossero poi trascorsi molti anni, solo perché appartenevano
a una stagione remota della mia vita, irripetibile.
Certi giorni d’estate accadeva che un treno transitasse in una
stazione secondaria, a poche centinaia di metri da casa, il fischio prolungato del treno si propagava nel silenzio del primo mattino.
Lo percepivo dal letto.
Iniziava cosi una giornata in cui già sapevo non sarebbe accaduto niente.
Immaginavo di starci, su quel treno, e scendere nelle lontane
stazioni dell’infanzia. La finestra della mia stanza incorniciava un rettangolo di cielo,
dai colori ancora crudi; all’arrivo, alcune ore dopo, avrei trovato un cielo cobalto,
intriso della luce piena di una mattina d’ estate. Mi aspettavano gli amici di allora, ci eravamo tenuti in contatto in quegli anni, biglietti di auguri a Natale e qualche lettera,
sugli studi e le ragazze e i progetti per il futuro.
Scambiavamo lunghe strette di mano, qualche abbraccio, recuperata d’un colpo la confidenza antica.
Non sapevo se i miei amici di un tempo fossero davvero lì, in
quei paesi della memoria, o io li avessi idealizzati, come
fissati nel tempo in una serenità forse ormai estranea anche a
loro. E se invece erano rimasti nelle rispettive città, alle prese
con beghe e problemi quotidiani?
Ma in quei giorni negati io vivevo la loro lontananza – reale
o immaginaria, poco importava – con il lancinante rimpianto
del recluso che non può intraprendere il viaggio, agognato,
oltre le sbarre della propria prigione.
La mia prigione ero io.