Via Romea

Via Romea

di Carla Ricchiuti

Quando si parte, si parte sempre per lasciarsi alle spalle qualcosa. Poi ci si convince che la partenza sia
per andare avanti. Ma sopita nell’angolo più riposto della nostra mente e del nostro cuore c’è la
consapevolezza che il viaggio è motivato dall’insofferenza per quello che già conosciamo e vorremmo che
avesse tratti diversi. I tratti della meraviglia che dunque cerchiamo altrove.
Quando ho lasciato Colmar in verità non era celato ad alcuno che io partivo per fuggire via. “Vado a
Roma in pellegrinaggio” dissi e tutti approvarono la mia decisione; ero solo al mondo. Dio mi poteva e
doveva fare compagnia. Avevo tutto quello che mi serviva: un bel bastone solido con il pomolo rotondo, un
saio ed un mantello pesante, una bisaccia su cui feci imprimere ad encausto la croce, simbolo del
pellegrinaggio a Roma.
Da quel giorno sono passati poco più di due mesi. Ho valicato monti e visto città e paesi. Mi sono
fermato in alloggi di fortuna, ho dormito sotto i portici delle chiese, ho avuto piaghe ai piedi e vesciche alle
mani. Ho visto miseria e povertà. Ho pregato molto. Ma non ho scoperto la meraviglia.
Sono giunto alle propaggini dell’Appennino; mi resta di valicarlo prima di potermi imbarcare da Luni
verso Roma. La via d’acqua è la più sicura; troppi briganti infestano le strade.
Stasera qualcosa non va. Non è il solito freddo e la solita fame che ho imparato a scacciare con un
pensiero più forte di lei. Non posso dormire all’aperto, sto tremando di freddo ed ardo insieme. In
lontananza distinguo il profilo bruno di una cinta muraria.
Sforzo i miei passi. Entro nel paese buio. Uno sforzo ulteriore. Arranco quando entro nella chiesa di
blocchi di pietra e crollo sul pavimento di mattoni nell’ingresso. L’ultimo ricordo è la durezza del pavimento
ed un vago odore di fumo e cera.
Oggi ho riaperto gli occhi; c’è un tepore di minestra, un odore acuto di medicinali. Un uomo giovane mi
parla in modo gentile: ”Ben tornato. Stai guarendo.”
“Dove sono?”
“ A Castell’Arquato, nello Spedale di Santo Spirito. Hai avuto i polmoni infetti”.
Non so spiegare: un misto di pace e gratitudine si mescola in me. Ho la sensazione che qui sto per
trovare ciò che andavo cercando.
“ Chi sei?” gli domando.
“ Uno che va girando. Come te. Anch’io ho avuto l’infezione. Questa stagione fredda ci lascia poco
scampo. Tu sei un pellegrino: ho visto il bastone e la bisaccia. Io invece sono un artigiano. Faccio lo
scalpellino. Ero in chiesa quando tu sei entrato perché stavo lavorando ai capitelli”.
L’uomo mi calma la tosse con un unguento balsamico.

Io e quell’uomo diventammo amici, uniti dalla malattia e dall’inquietudine che portavamo dentro. Fu
lui la compagnia che sarebbe sempre stata con me, anche quando sarebbe stata presente solo nel mio
pensiero.
In Primavera ognuno andò per la sua strada: io verso Roma, lui in altre città dove si richiedeva la mano
abile di uno scalpellino.
Vidi Roma, stupii della sua decadenza. Tornai indietro e ripercorsi i miei passi per tornare a Colmar. Mi
fermai a Piacenza poiché mi dissero che il Duomo era di imponente bellezza.
Gli scalini d’ingresso mi avevano riportato al momento della mia caduta, all’incontro con lo scalpellino
nello Spedale di Santo Spirito. Nella penombra della navata, alzai lo sguardo su un pilastro cilindrico
enorme. Rimasi senza fiato. Io ero lì, scolpito nella pietra.
Lui mi aveva eternato; un pellegrino massiccio, barbuto, piantato al suolo con grossi piedi nudi, con il
mio bastone e la mia bisaccia a tracolla. Il simbolo della croce impresso: il cammino della Via Romea.
Ed io ebbi finalmente la meraviglia che cercavo.

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